lunedì 15 aprile 2013

Oncia da 30 tarì: il simbolo di una rinascita

Oncia da 30 tarìContrariamente a quanto una certa storiografia continui a propagandare quei “Borbone” che regnarono il Sud Italia antecedentemente all'unificazione della nazione cercarono a più riprese di mettere in luce ed esaltare la storia del loro regno attraverso lo studio di una possibile continuità con il passato più remoto. Per quanto tecniche e metodi furono errati utilizzarono i più avanzati del loro tempo anche nel riportare in vita Pompei iniziando così gli scavi che oggi, paradossalmente, lamentano più attenzione di quanto non gli fu dedicata all'epoca. Anche in tanti altri piccoli gesti simbolici, i Borbone si sforzarono sempre di sottolineare il legame storico che dava continuità territoriale ai luoghi dove regnavano. Piccolo ma illuminante esempio è la moneta nota come “oncia da 30 tarì” dove al dritto fecero incidere l'effigie del regnante mentre il retro venne adornato di una significativa “fenice”. Questa era, come è noto, un uccello della mitologia più antica già noto ai sumeri e che aveva la proprietà di poter morire per autocombustione e rinascere dalle proprie ceneri. L'uso di questa “creatura mitologica” sulla più grossa moneta argentea coniata per il Regno di Sicilia non fu quindi dettato dal caso o da un puro vezzeggiamento estetico ma dalla consapevolezza storica di quanto tale mito rappresenti simbolicamente. Per comprenderne l'importanza del messaggio che si volle far propagandare attraverso una moneta dobbiamo considerare che gli eventi si svolsero in un'epoca in cui le monete affermavano autorevolmente il possesso territoriale di un sovrano e veicolavano con forza i messaggi che il regnante voleva sottolineare. L'oncia (o più regionalmente “onza”) era una antica moneta già in uso in Sicilia all'epoca dei Normanni dopo che nel 1088 d.C. Ruggero I fondò appunto il “Regno di Sicilia”. Questa antica “onza” normanna, prima che Federico II la dividesse in 600 grana da 20 tarì era appunto formata da 30 tarì. Usando una “fenice” evidentemente nel 1732 Carlo VI del Sacro Romano Impero divenne Re di Sicilia con titolo di Carlo III volle simboleggiare quel “riportare in vita dalle ceneri” la moneta più nota dell'antico Reame e ne fece coniare una nuova e di oltre 5 centimetri di diametro affinchè fosse bene in vista il risorgere di quel Regno di cui la moneta stessa era autorevolmente rappresentativa. La “fenice” presente al retro dell'oncia da 30 tarì fu quindi utilizzata come emblema della volontà di confermare la “rinascita” del Regno di Sicilia. La stessa dicitura che contorna la “fenice” conferma questa volontà: “OBLITA EX AURO ARGENTEA RESURGIT” (dall'oblio risorge attraverso oro e argento). Dal 1734 il Regno di Sicilia in seguito alle vicende della guerra di successione polacca passa nelle mani di Carlo III di Borbone che mantenne nella monetazione l'oncia con la fenice. Nel 1759 Carlo III di Borbone fu chiamato a succedere al trono di Spagna in ragione della morte del suo fratellastro Ferdinando VI e il “Regno di Sicilia”, già divenuto “Regno delle Due Sicilie” era complementare ai territori dell'ex “Regno di Napoli”. Ferdinando III, figlio di Carlo III divenne quindi successore al trono delle due amministrazioni che più tardi si sarebbero individuate come “Dominji al di qua del Faro” e “Dominji al di là del Faro” prendendo come riferimento Napoli in relazione al faro di Messina. Ferdinando III di Borbone mutò dunque il suo nome in Ferdinando I delle Due Sicilie e perseguì la volontà paterna di mantenere separate le due amministrazioni in una “confederazione” degli stati del sud. Anche le monetazioni furono tenute distinte e l'onza da 30 tarì continuò nel suo compito di ricordare le antiche origini del Regno di Sicilia ma riportando al dritto l'effigie del nuovo sovrano. Oncia da 30 tarì La nuova incisione presenta un'immagine non proprio fedele al temperamento di Ferdinando II che vi appare come condottiero dai tratti grossolani ed il collo taurino. In realtà non vi è traccia storica di una famigliarità con tattiche di guerra e studi balistici, al contrario sembra ormai certa una atavica repulsione per la lettura che fu però vinta dalla ragione di stato. Succedette al padre a soli otto anni rimanendo a regnare con l'ausilio di un Consiglio di Stato capitanato dal toscano Bernardo Tanucci. Lo si vuole dipingere come re poco acculturato ed accorto ma in realtà dovette costringersi ad una crescita molto rapida attraverso l'esperienza quotidiana. Nulla poteva essere più rapido dell'imparare dal suo popolo quel tipico “folclore napoletano” che venne assorbito al punto di essere base dell'educazione ricevuta e che contribuirà alla nascita di un sentimento amorevole per tutto il Regno. Di fatto fu Ferdinando I a compiere gli sforzi necessari ad una rapida ripresa economica che consentì a quei territori lasciati nella totale arretratezza di confrontarsi alla pari con i più ricchi stati europei. Non riuscì però a gestire il latifondismo ereditato dall'amministrazione spagnola e nonostante gli sforzi di rendere il demanio disponibile ai contadini nullatenenti dovette cedere alle pressioni dell'aristocrazia. Più tardi sarà suo nipote Ferdinando II a riuscire nell'impresa che in ogni caso si vanificherà nelle promesse fatte dai Savoia agli stessi latifondisti in cambio dell'astensione nell'intervenire in difesa della corona borbonica e consentire così l'invasione garibaldina del mezzogiorno. Ferdinando II aveva però idee differenti sul Regno delle Due Sicilie e tralasciò la produzione dell'onza da 30 tarì che si estinse con il nonno. Fra i due sovrani si era interposto il regno del figlio di Ferdinando I: Francesco I delle Due Sicilie. Quest'ultimo però regnò per soli sei anni interessandosi esclusivamente di un'amministrazione liberal-conservatrice, ordinaria, rigorista e moralizzatrice che fece ulteriormente progredire economicamente e tecnologicamente il regno ma senza alcuna concessione alla ricerca culturale. In tutto esistono quindi solo cinque tipi con due con effigi: 2 per Carlo III e tre per il figlio Ferdinando I. Il primo tipo emesso nel 1732 ha 57 mm di diametro, il secondo del 1733 è ridotto a 55 mm. Mentre in questi due tipi l'effigie di Carlo III e pressochè identica nelle tre onze con effigie di Ferdinando si hanno incisioni sempre differenti. Il tipo emesso nel 1785 ha l'effigie molto contenuta verso l'interno della moneta che presenta un diametro di 56 mm. Nel 1791 si ha invece una effigie molto ampia e la moneta ha diametro di 55 mm mentre nel 1793 il tratto diventa grossolano ed il diametro è ridotto a 47 mm. Il peso dell'argento rimane però di 68,32 grammi in tutte le monete. Stessa sorte tocca all'incisione della “fenice”: quasi identica nelle monete di Carlo III e sempre differente in quelle di Ferdinando dove nell'ultima rivolge lo sguardo a destra quando nelle prime due è verso sinistra. Qualcuno scherzosamente, vuole vedere anche in quest'ultimo particolare una nascosta simbologia politica. 

Pubblicato il 8 settembre 2012 su www.noicollezionisti.it
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